Serve ecologia nella politica per portare via l’immondizia dalle strade di Roma

Il punto non è il milione di euro in consulenze in 12 anni. Il punto è dannatamente politico. Oltre che, economico, ed ambientale. Che senso ha spedire a mille chilometri di distanza i rifiuti di Roma?

Il paradosso della vicenda è esattamente questo: Roma manda la metà della sua immondizia in Friuli o fuori dalla Regione Lazio, mentre intorno a Roma ci sono discariche come quella di Cupinoro a Bracciano, che sono al palo e senza soldi per la messa in sicurezza.
E’ tutto un dannato caos ideologico, con questa ossessione per una differenziata che non funziona. Ovunque nell’Area Metropolitana, è una discarica abusiva di immondizia.

Io penso che una politica responsabile debba essere in grado di tenere insieme le due cose: risorse per la bonifica di Cupinoro e per la messa in sicurezza di Cupinoro e abbattimento dei costi e maggiore efficienza del trattamento dei rifiuti di Roma. Tutto il resto è grillismo!

BASTA! Chi è eletto ha il dovere di risolvere! Piuttosto sottolineate il fatto che questi signori sono stati eletti in primis per aver impedito di costruire gli impianti necessari a gestire l’immondizia. Alcuni si accampavano fuori le discariche. Cominciamo sul serio a fare ecologia, anche nella politica. 

 

 

Torino ancora capitale

Arriva Chiara Appendino, sindaca del nuovissimo movimento dei 5 stelle e gli Agnelli portano via da Torino la loro cassaforte.

Non credo proprio che le due cose siano collegate tra loro, ma in questo singolarissimo cambio della guardia all’ombra della Mole, c’è però la rappresentazione dei cambiamenti avvenuti così traumaticamente negli ultimi 5 anni in Italia e nel mondo.

Simbolico, poi, che questo mutamento sia poi avvenuto in questa metropoli, prima Capitale dell’Italia Unita e città che più di tutte le altre ha dato corpo e anima alla costruzione dello Stato liberale e borghese in Italia.

E’ un cambio della guardia che segna in maniera plastica, la transizione da una fase storica ad un’altra. A pensarci, una metafora più azzeccata di questa, era difficile da immaginare.

Con gli Agnelli, da Torino (e dall’Italia) se ne va un pezzo importante di storia. Non tanto la storia della famiglia e dei singoli -su tutti l’Avvocato e,  prima di lui, suo nonno. Ad andarsene è quella avventura insieme capitalista, borghese e liberale che dalla seconda metà del XIX secolo e fino a oggi, pur tra mille evoluzioni e involuzioni, ha segnato la storia del nostro paese. E’ alla confluenza del Pò con la Dora Baltea che nasce la prima classe dirigente nazionale e sempre qui, nelle fabbriche degli Agnelli, nascono le prime forme di partecipazione collettiva e di estensione delle forme di democrazia e dei diritti. L’uomo nuovo, prima borghese e liberale e poi proletario e socialista, è nato tra queste fabbriche e in queste strade. Con lui i valori di quella civiltà della fabbrica e dell’industria che avevano il loro modello di democrazia e la loro idea di sviluppo economico, la Repubblica fondata sul lavoro, l’etica del lavoro, la cittadinanza legata al lavoro. Non solo, oltre al lavoro c’era un altro importante valore che irraggiava dalla città della Mole, ed era quello legato al valore della ricerca, della Scienza, della tecnologia. Irraggiava letteralmente attraverso le nuove antenne prima dell’Uri , poi dell’Eiar e infine della Rai e attraverso i fili telefonici della Sip, e poi della Telecom il segnale orario dell’Istituto Galileo Ferraris. Ad oggi la Stampa, un tempo quotidiano della famiglia di Torino e della Agnelli, è uno dei pochissimi giornali ad avere uno spazio fisso destinato alla scienza. Infine anche l’etica stessa dello Stato e della Pubblica Amministrazione avevano sotto la Mole un loro preciso modello di riferimento (monsù travet).

Gli Agnelli erano e sono la bandiera di quella civiltà della fabbrica e dell’industria dell’automobile, del boom e della 500. Una civiltà che aveva in Torino la sua Capitale e che ora non c’è più e che non si riconosce nemmeno più in quella storia.

All’Homo faber, si contrappone ora l’homo utens. Il lavoro non è più il valore di riferimento della nuova società post globale e non lo è neppure quel modello di democrazia e di Stato. Ora c’è un mondo nuovo modello e un nuovo valore. La cittadinanza è definita dal reddito, non dal lavoro. Se le cose stanno così, che ci fa a Torino una dinastia di industriali?

Non è un caso infatti che nella nuova città è nata da anni una nuova classe dirigente che è rappresentativa di questa nuova classe di valori e che Chiara Appendino incarna alla perfezione. Le recenti elezioni non potevano andare diversamente. Piero Fassino, non era il candidato del Pd, ma di quel mondo lì, il mondo del lavoro, della democrazia dei partiti, del sindacato, della fabbrica e degli Agnelli. Appendino non lo è e la città questo lo ha riconosciuto al di là del merito della sua passata amministrazione.

Non è un caso se da Torino partiranno i primi esperimenti di democrazia direttaNel bene e nel male, è tutta la catena dei valori di quella civiltà industriale che in questa città sta declinando in favore di nuovi principi antitetici a quelli. Si spiegano così le scelte bollate come “antiscientifiche” della Sindaca sul wifi e sulla dieta vegana. La scienza non fa più parte della nuova società. Come pure non ne fanno più parte i giornali. Tutto è obliterato nella nuova società in cui la cittadinanza si misura con la capacità di consumare. Altri sono i personaggi che incarnano il nuovo spirito: Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, è un campione dei nuovi valori di accademie del gusto, di orti sinergici, di km zero biologico e di “no ogm”. Tutto è lontano migliaia di anni luce dalla frenesia di una metropoli globalmente interconnessa con la sua tav e con le sue fabbriche di treni e di automobili.

Singolare che a distanza di 150 anni dall’Unità d’Italia, sia ancora Torino a rappresentare così plasticamente queste pulsioni tra vecchio e nuovo mondo, rivelando così la natura intrinseca di Capitale di questa città meravigliosa ai piedi delle Alpi.

 

La raccolta differenziata è pura ideologia irrazionale

Quella della raccolta della differenziata è una forma di ideologia che ha monopolizzato e canalizzato il dibattito intorno alla vita delle comunità locali per almeno due lustri, restringendo altre necessità, altre discussioni e altri temi. Come se non ci fosse altro da discutere in tema di ambiente nelle nostre città il tema dei rifiuti è stato il centro del dibattito pubblico.

In pratica è su questo tema che – negli ultimi venti anni – si sono formate gran parte delle élite politiche attuali e su questo argomento sono cresciute e si sono consolidate.

Mentre il mondo cambiava noi eravamo tutti presi da secchi della spazzatura di diverso colore, da sistemi con millemila erre da inserire, calendari inverosimili e condotte da stigmatizzare. Intorno alla immondizia abbiamo costruito un mondo folle e del tutto irrazionale.

Mentre il mondo correva veloce, noi ci chiedevamo “e oggi che si butta?“.

L’avvento del cittadino utente

Prima c’era il proletario, contrapposto al padrone e in mezzo il ceto medio e la sua rappresentanza costruita intorno alla DC e al PCI.

Poi venne il Popolo delle Partite iva e con lui il Nordest e Silvio, Forza Italia e PDL, contro il popolo dei dipendenti (Ulivo di Prodi).

Ora è il tempo dei cittadini utenti: utenti delle strade con troppe buche, della scuola, della sanità. Insomma il pubblico di Mi Manda Raitre. Ora sono tutti cittadini a 5 stelle.

Il tema del lavoro e dell’organizzazione della produzione è ormai definitivamente uscito di scena.

La fermata dell’autobus

Il fatto è che mentre la politica si perde a discutere di partito della nazione, di antirenzismo, di pecette, di appartenenze, di eredità, del gran vecchio partito, dei voti in centro, di quelli in periferia, delle classi, degli operai, dei ricchi, dei poveri, tu sei li che aspetti alla fermata e l’autobus, niente: non passa.

Il lavoro? Niente manco quello c’è.  Allora pensi che magari ti crei qualcosa di tuo, ti organizzi, fai, proponi costruisci progetti, ma niente manco ascoltano e se lo fanno, rigorosamente non decidono. Classi dirigenti che non dirigono abdicano da sole al loro ruolo e, inevitabilmente, sono destinate ad essere scalzate.

Nel frattempo i giorni passano sul calendario ma tutto resta così com’è, ogni giorno più vecchio e malandato.

Giustizia per Bossetti (e per Yara)

1430138499-massimobossetti.jpgMassimo Bossetti è in carcere da circa due anni ed aspetta un processo. E’ dentro per una accusa gravissima: aver ucciso dopo aver violentato la piccola Yara Gambirasio.

Bossetti è stato colpevole sin dal primo giorno. Il suo arresto venne annunciato dal Ministro dell’Interno con un tweet che era già una condanna. Tweet-Alfano

Eppure sulle prove raccolte a suo carico era ed è ancora lecito qualche dubbio.

A distanza di due anni Massimo Bossetti è ancora in carcere in attesa di giudizio. Sono due anni che la sua vita la sua intimità quella della sua famiglia sono sottoposti ad ogni sorta di analisi, indagini e persino di interpretazioni. Si è scavato fino a rivelare tradimenti che ne hanno messo in discussione chi fosse il suo vero padre.

Ogni atto dell’indagine è filmato registrato e poi puntualmente pubblicato.

Oggi l’ennesimo brutale atto della pubblicazione delle lettere che -. dalla sua cella – il detenuto scriveva ad un altra detenuta a Bergamo. Lettere erotiche, direi pornografiche, che fanno oggi bella mostra di sé dalle pagine di importanti siti.

Perchè quelle lettere sono sui giornali? che senso ha darle alla stampa? Che contributo di verità può esserci nello scoprire che un uomo in carcere da due anni trova piacere e passione nello scrivere lettere erotiche ad una donna? Cosa dovrebbe dimostrare? Il sexting è un reato?

La pena accessoria della distruzione sistematica della vita famigliare di un uomo non è prevista in nessun codice della Repubblica. Eppure Bossetti continua a subirla.

Sarebbe il caso che invece abbia un processo.

Referendum, Eni e il fallimento di una classe dirigente

20150806_145239C’è un aspetto, nella campagna referendaria che si è appena conclusa, che più mi ha colpito. Non si è trattato di un aspetto marginale, ma di un argomento centrale di tutta la campagna promossa dalle Regioni e uno dei punti piu’ attinenti e solo apparentemente meno strumentali della campagna in favore del “Si”.
E’ il modo con il quale dirigenti politici e istituzionali si sono riferiti alla controparte economica coinvolta dal processo referendario, ovvero i gestori e i proprietari delle piattaforme off-shore.
Mi ha molto colpito infatti l’apparente semplicità con cui si è liquidato questo importante protagonista della partita in gioco. “Petrolieri dagli interessi oscuri, le lobby, le multinazionali, il governo delle lobbyes che vuole fare l’interesse di pochi, ecc ecc”.
Intendiamoci in campagna elettorale i toni sfuggono un po’ a tutti e ci sta. Ma che siano i vertici delle classi dirigenti di questo paese a usare questi termini che in altri tempi avremmo definito “infantili”, non può non suscitare qualche riflessione.
capitalismoOra si dà il caso che in questo caso i petrolieri sporchi e cattivi – non sono dei signori che stanno a New York o a Londra con la tuba in testa mentre spolpano con le loro mani sporche di petrolio un mondo sempre piu’ inquinato.
I petrolieri coinvolti in questo referendum sarebbero quelli dell’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni), una multinazionale che non solo è di proprietà dello Stato Italiano (ovvero di noi tutti e qualcuno tra noi è doppiamente proprietario nel senso che ha nel suo portafoglio anche azioni del cane a sei zampe) ma è anche uno, se non il, principale perno che ha contribuito alla costruzione dell’industria nazionale ed è una delle poche aziende nazionali che ancora si dimostrano essere competitive in chiave internazionale (e per questo oggetto di fortissime pressioni internazionali – vedi la Libia, l’Egitto, la Crimea). E’ attraverso l’Eni che arriva in Italia l’energia, sotto forma di idrocarburi, necessaria non solo alle nostre industrie, alle centrali che producono energia elettrica, ma anche a soddisfare le nostre esigenza di riscaldamento, di mobilità (benzina e gasolio) e di uso domestico (acqua calda e cucina). Quando accendete una lampadina, usate acqua calda, prendete la moto o il motorino e indossate le vostre scarpe da ginnastica, la vostra felpa, o semplicemente prendete lo scolapasta, sappiate che state usando un oggetto o compiendo un’azione che è possibile grazie al fatto che 83.000 uomini e donne di Eni, ogni giorno dell’anno, sono al lavoro in oltre 80 paesi per assicurarvi tutti quei prodotti e servizi.
Senza contare poi sul fatto che il fatturato dell’Eni è dell’ordine del centinaio di miliardi di euro all’anno e il dividendo che ogni anno il Ministero del Tesoro incassa per effetto del rendimento dei titoli del colosso dell’energia, rappresenta una quota considerevole del bilancio a cui si aggiungo le tasse e le royalties (l’anno scorso in Basilicata solo con le royalties sono entrati 150 milioni di euro).
Anche la storia stessa dell’Eni nata come atto di resistenza contro i nazisti che allora occupavano la Pianura Padana è indicativa, come quella, piu’ in generale della storia, ultramillenaria del rapporto tra i territori italiani e il petrolio.
Insomma, l’Eni è una vera e propria colonna portante del Sistema Italia. Un asset strategico che una classe dirigente consapevole, dovrebbe comunque tutelare e proteggere, ma anche indirizzare verso politiche più sostenibili.
Anche se gli interessi di Eni non sono del tutto coincidenti con gli interessi dell’Italia e degli italiani, è certo che questi siano in larga misura sovrapponibili tra loro. E ancora più certo suona ridicolo sentire riferirsi a questi come se fossero”interessi di pochi” o quelli di “oscure lobbies“.
Usare la frase “interessi dei petrolieri” per definire gli interessi di Eni che da qualche decennio opera nei mari italiani, è a mio avviso la dimostrazione della incapacità di una certa classe politica e dirigente di questo paese che evidentemente non sa proprio di cosa parla, non ha cioè l’esatta contezza e misura di quello che implica governare un paese come il nostro.
Questo atteggiamento genera poi a cascata ripercussioni su molte altre cose al punto che questa classe dirigente, invece di dirigere si limita a inseguire gli istinti dopo averli sobillati. E’, in altri termini, l’emblema del fallimento di questa classe dirigente. Figuriamoci se poi, la stessa sia in grado di organizzare e sostenere una politica industriale per una realtà come l’Eni o una politica energetica degna di questo nome.